Kefàli racconta il peso delle aspettative sociali in “Please”, il suo nuovo singolo

A due mesi esatti dalla pubblicazione del sensuale ed energico inno al female empowerment “I Don’t Care”, Kefàli torna a scaldare i cuori con la raffinata potenza della sua voce in “Please” (Cosmophonix Artist Development/Altafonte Italia), il suo nuovo singolo disponibile in radio ed in tutti i digital store.

Bergamasca di nascita e newyorkese d’adozione, la poliedrica artista classe 1996 si spoglia di ogni suo ruolo riversando in musica gli stati d’animo e il turbinio di sensazioni contrastanti che avvolgono la nostra contemporaneità, sempre più focalizzata al raggiungimento di un’effimera e chimerica perfezione, anziché alla promulgazione di un benessere individuale capace di propagarsi nel collettivo.

Come ci si sente quando il mondo esterno, soprattutto quello dei nostri affetti, nutre aspettative altissime nei nostri confronti? È da questo quesito che Kefàli, traendo da un’esperienza vissuta dalla sorella, ha dato il via ad una serie di riflessioni e considerazioni che hanno portato alla nascita di “Please”, un grido di aiuto scaturito dalla frustrazione e dal timore di non farcela, di non essere all’altezza e di deludere ogni attesa, una struggente istantanea di un’esistenza, la nostra, sempre più bidimensionale, come lei stessa racconta:

«”Please” è nata in un momento di fragilità attraversato da mia sorella. Questo suo periodo, mi ha fatta riflettere moltissimo sulle aspettative che gli altri riservano nei nostri confronti, che diventano quasi delle imposizioni, e su quanto l’avvento e la diffusione dei Social abbia reso la nostra vita bidimensionale. I primi tempi, a New York, non me la passavo benissimo, ma mi sentivo dire: “Ma di cosa ti lamenti? Sei a NY, non sai quanto vorrei esserci io al tuo posto!”. Rimanevo stupita di come nessuno si preoccupasse di come stessi realmente. Tutto ciò ha creato in me un senso di responsabilità e la paura di essere un fallimento nel momento in cui, quello per cui stavo lavorando, non avesse funzionato».

Ed è da questa paura che ogni piccolo ostacolo incontrato sul proprio percorso, personale e professionale, anziché diventare motivo di crescita ed evoluzione, si amplifica e si enfatizza sino ad apparire mastodontico, insormontabile e causando, dentro di noi, ulteriore sconforto e avvilimento.

Una pressione psicologica spesso involontaria per chi la attua, ma in grado di scatenare una profonda insicurezza nell’animo di chi, ricevendola, si ritrova ingabbiato nella propria vita, nei propri pensieri – «I find myself breathing, but I can’t reach for air» («Mi ritrovo a respirare, ma non riesco a prendere aria») -, incapace di intraprendere un percorso libero dal giudizio e dalle forti attese altrui, perché avvezzo ad una pseudo-scelta, mossa, unicamente, da aspettative mascherate da auspici che, come vere e proprie lame, trafiggono i sogni in favore di quel risultato finale in linea con un volere sociale universale che mira alla perfezione, trascurando la completezza e la soddisfazione che ciascun individuo identifica per se stesso in maniera del tutto soggettiva.

Una zavorra frequentemente scaturita dal desiderio di incitare le persone a cui teniamo alla realizzazione e all’appagamento, ma che, con il passare del tempo, si sovverte, divenendo per loro un fardello insostenibile – «I feel the weight on my shoulders, like everyone depends on me» («Sento il peso sulle mie spalle, come se tutti dipendessero da me») -, causa di insoddisfazione e svilimento a tuttotondo:

«Quando le persone che abbiamo accanto si aspettano da noi la perfezione in ogni campo, senza lasciarci spazio per commettere errori e crescere, ci sentiamo soffocare – conclude Kefàli -. Questo, capita anche quando avvertiamo il fiato sul collo e percepiamo che alcuni sono lì ad aspettare un nostro errore, come se per loro dimostrare la nostra umana imperfezione sia una soddisfazione. Nel ritornello canto “Stop saying that you want to be me, cause you don’t know what it means” (“Smettila di dire che vuoi essere me, perché non sai cosa significa”), ma anche “Please, start listening” (“Per favore, inizia ad ascoltare”), proprio per far capire come a volte basterebbe prestare maggiore attenzione ai reali desideri di chi amiamo per vederli pienamente soddisfatti delle loro vite, anziché asfissiarli con continue aspettative che portano solo ad insoddisfazione e frustrazione».

Una tematica, quella della perfezione, del dover apparire ineccepibili e saper eccellere in ogni campo, sempre più diffusa e diramata, estesa ad ogni aspetto della quotidianità, da quello estetico, enfatizzato dai social network, a quello professionale, finalizzato alla competizione continua anziché ad una collaborazione ove ciascun individuo può mettere in campo le proprie inclinazioni, fino ad arrivare alla sfera più intima e personale, che include la dimensione socio-affettiva, incoraggiando relazioni umane che di umano hanno ben poco, incentrate sull’interesse anziché sul sentimento, e quella interiore della propria personalissima visione di sé, che penalizza le vocazioni soggettive favorendo un’omologazione priva di creatività ed emozione.

“Please”, una struggente richiesta di aiuto supportata dalla necessità di essere ascoltati, percepiti nella propria condizione umana che ci dà il diritto di commettere errori perché è solo così che saremo in grado di migliorarci ogni giorno, è accompagnata dal videoclip della versione acustica – arrangiata da Luca Giola -, diretto da Michele Di Rienzo – con audio a cura di Giorgio Andreoli – che riassume, attraverso iconici frame, l’importanza di potersi sentire imperfetti per raggiungere, passo dopo passo, l’unica vera perfezione a cui possiamo aspirare, quella di una vita di cui essere gli unici artefici.